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24 Febbraio 2017
 

Strepitosa l'intervista di Aldo Cazzullo per Corriere della Sera / Sette - Strepitose le foto di Mike Putland

«Il ricordo di mio padre nel lager nazista, l’estate da rock star, i figli»
Vasco Rossi si racconta
 
Il cantante parla in un’intervista di Aldo Cazzullo al settimanale Sette in edicola venerdì. 
«Mi chiamo Vasco come un compagno di prigionia di mio papà»
anticipazione su corriere.it

di Aldo Cazzullo



«Mi chiamo Vasco come un compagno di prigionia di mio padre. Dopo l’8 settembre i tedeschi lo portarono nel campo vicino a Dortmund, in Germania. Papà, che si chiamava Giovanni Carlo, fu uno dei 600 mila che preferirono restare nei lager piuttosto che combattere al fianco dei nazisti. Il campo fu bombardato, lui cadde nel cratere di una bomba, questo Vasco lo tirò su, gli salvò la vita. Non si rividero più, non so se sia sopravvissuto. Tanti suoi amici morirono di fatica. Papà tornò a casa dopo due anni. Pesava 35 chili. Ci è rimasto il suo diario. Non riusciva a vedere i film sull’Olocausto, erano emozioni troppo forti per lui».
«Io sono nato sopra l’osteria di mio nonno Breno, con una enne sola, a Zocca, e sono cresciuto nel periodo più felice degli ultimi duemila anni. La guerra era finita, finito il fascismo, finite le esecuzioni di massa dei tedeschi. Gli scampati e i neonati erano vivaci, allegri. Il nonno aveva fatto la Grande Guerra. Era in un reparto che doveva essere fucilato per diserzione: riconobbe uno del paese, a un cenno si gettò in un dirupo, fu dato per disperso, si nascose in convento; tanti anni dopo l’ho accompagnato a rivedere i luoghi, il convento era sempre là. Io lo prendevo in giro: “Nonno non sei stato proprio un eroe”, lui rispondeva: “Era una guerra per ammazzare i poveretti”. Poi il nonno era andato in Africa a lavorare come camionista. Camionista era anche mio padre».
«La domenica si facevano feste dove ti sedevi a tavola a mezzogiorno e ti alzavi all’una di notte. Mia mamma Novella mi portava al bar – in casa non avevamo la tv - a vedere le prime edizioni del festival di Sanremo, mi faceva imparare le canzoni a memoria, e alle feste salivo sulla sedia a cantarle: “Chi gettò la luna nel rio, chi la gettò…”. Oppure recitavo poesie autobiografiche: “Io sono un bel bambino con gli occhi azzurri color del mare…”. Per lei e per la mia tata Ivana, che aveva 15 anni, ero come un bambolotto: mi pettinavano con la banana, giocavano con me. Mio nonno materno, Luigi, suonava la chitarra, e tutti ballavano il valzer. Morì giovane dopo essersi bevuto un mondo e quell’altro. Ricordo il suo corpo sdraiato sul letto, con il pancione enorme».



Bimbo prodigio e studente tormentato

«Il prossimo primo luglio torno a suonare a Modena, per 220 mila persone, e ne sono felice. Mi diverte perché a Modena è legata la mia prima affermazione musicale: l’Usignolo d’oro. Ovviamente mi aveva iscritto la mamma. Mi avevano allenato a Vignola con la fisarmonica, avevo preso lezioni di canto dal maestro Boroncini: vocalizzi da 40 minuti. Votavano bambini poco più grandi di noi, con le palette. Presi tutti 10 e vinsi clamorosamente, con la canzone “Come nelle fiabe”. Ero allibito: non me l’aspettavo. Il primo premio era una bicicletta. Il giornale locale scrisse che aveva vinto un pastorello che portava le pecore al pascolo».
«La magia finì quando tornai a Modena per andare in collegio dai salesiani. Noi montanari eravamo come adesso i migranti; e io, anche se una pecora non l’avevo mai vista, ero davvero selvatico, cresciuto nei boschi, abituato a far la lotta nell’erba. Avevo sempre le ginocchia sbucciate. In città fui schernito, isolato: ci soffrii molto. Mi bocciarono subito, ma tanto ero un anno avanti. Poi ho fatto ragioneria, una scuola assurda: impari cose per cui basterebbe un corso di tre mesi, ed esci di lì senza sapere che sono vissuti Socrate e Platone. Ebbi solo un momento di gloria, quando scrissi “Tema libero sul tema libero”, un flusso di coscienza sul blocco da pagina bianca: presi “dal 9 al 10”. All’università volevo fare il Dams, ma mio padre pretendeva una laurea seria. Mi iscrissi ad Economia, poi a Pedagogia. Non ho mai finito, ma lui non mi ha mai detto nulla. Ha sempre avuto fiducia in me, il suo unico figlio».
«Papà morì a 56 anni. Un ictus, mentre faceva manovra con il camion, tra i silos di Trieste. Sono andato a prenderlo. Fu uno choc terribile. La mia vita cambiò. Cominciai a fare sul serio; fino ad allora avevo scherzato. Tornavo a casa alle sette del mattino e mio padre non c’era, si era alzato alle quattro. Io facevo il fighetto, ero dj e mettevo musica da discoteca che detestavo: ascoltavo Genesis e Pink Floyd, Madonna e Michael Jackson mi facevano orrore. Dopo la morte, mio padre mi è entrato dentro. Mi ha lasciato la sua parte combattente, testarda, che si è unita alle malinconie, alle gioie, alle canzoni che mi arrivano da mia madre. Allora è cominciata la guerra. E da cantautore sono diventato un rocker».



Il malessere dentro

«Avevo già fatto i primi due concerti, organizzati da Bibi Ballandi, in piazza Maggiore a Bologna e nei magazzini della Fiera: non c’era nulla, neanche gli strumenti, dovemmo portarli da casa. La svolta fu il terzo concerto, a Vicenza. La piazza si svuotò subito, e questo l’avevo messo in conto; ma poi un gruppo di ragazzotti al bar cominciò a tirarci le freccette di carta. Mentre tornavo a casa in macchina mi sono detto: io non permetterò mai più a nessuno di trattarmi così; la prossima volta che uno tenta di disturbare un mio concerto, scendo dal palco e lo prendo a pugni. Nel 1977 incisi il primo disco, Jenny. Ci eravamo inventati una radio libera, con gli amici di Zocca. Io ero pure l’amministratore, ma di conti non capivo nulla. La vendemmo al Pci, pensando che l’avrebbero lasciata a noi; mi misero a fare il muratore, lavorai per sei mesi a 8 mila lire l’ora, per sistemare i locali, piazzare i pannelli».
«Ero di sinistra, ma non sono mai stato comunista. Semmai, anarchico. Non mi piacevano neppure Lotta continua e Potere operaio: studenti figli di papà, che di giorno giocavano alla rivoluzione e la sera tornavano a casa per cena. Facevo teatro sperimentale, stavo con gli indiani metropolitani. Più tardi mi sono riconosciuto in Pannella. Ho creduto al sogno degli Anni 70, e quando è arrivata la Milano da bere ho provato fastidio. Per questo mi arrabbio quando mi considerano un simbolo degli Anni 80, dell’individualismo. Vita spericolata nasce dal “vivere pericolosamente” di Nietzsche, mica dai paninari o dai rampanti. Bollicine era una canzone contro la pubblicità, non sulla droga. Non eravamo riusciti a cambiare il mondo; dovevamo cambiare noi stessi, rivendicare la nostra libertà e la nostra diversità. Ho cominciato a togliere parole dai testi, sull’esempio dei minimalisti: Meno di zero di Bret Easton Ellis e Le mille luci di New York di Jay McInerney sono libri che mi hanno cambiato la vita. L’Italia si arricchiva, ma io il malessere dentro l’ho sempre avuto. Le canzoni sono state il mio modo di confidare cose che nella vita non avrei detto a nessuno, di calarmi nella tragedia della condizione umana. Vedevo crescere la sofferenza, la disperazione, e negli Anni 90 le ho dato voce. Gli spari sopra, C’è chi dice no: ci sentiamo così comodi, siamo così ipocriti; ma gli spari sono per noi».



Due figli “a sua insaputa”
 
«La droga era una fuga dalla fatica di vivere. Mi trovarono con 26 grammi di cocaina. Ho fatto quasi un mese di galera, cinque giorni in isolamento. L’unico a venirmi a trovare fu Fabrizio De André, con Dori. Pannella mandò un telegramma. Il carcere fu un modo per disintossicarmi, e anche per resettarmi. Fino ad allora ero convinto di bruciare in fretta, di morire giovane. Mi dissi che dalla sofferenza non si fugge, ed era meglio andare sino in fondo alla vita, per vedere come va a finire questa bella storia. E sono ancora qua».
«Al processo presi 22 mesi con la condizionale. Mi arrestarono una seconda volta, in autostrada: accelerai per sfuggire a una volante, clacsonavo la macchina davanti, ma era pure quella della polizia. Mi dissero: “Lei non sta in piedi, dobbiamo perquisirla”. Avevo una bomboletta di gas urticante con il manico, un’arma di autodifesa vietata in Italia, me l’avevano portata dalla Germania. E avevo un grammo di coca, che mi costò un’altra notte in galera. Io pensavo che ognuno fosse libero di tenere un po’ di roba per sé; e lo penso pure adesso, che non la uso più».
«Sanremo era fondamentale, per uno che da bambino cantava per la mamma le canzoni del Festival. Il patron Ravera mi voleva, io resistevo: “Suono il rock, cosa vengo a fare?”. Lui assicurò che potevo comportarmi come mi pareva. Andai per farmi notare. Guardavo tutti come se fossero bambini dell’asilo, anche Al Bano. Ma non lo feci apposta a gettare il microfono: siccome non riuscivo a infilarlo al volo nell’asta, me lo portai via per darlo al prossimo cantante; ma il filo era troppo corto, e cadde con un frastuono orrendo. In finale “Vado al massimo” arrivò ultima, è vero, ma aveva passato il turno, mentre Claudio Villa era stato eliminato. Qualcosa stava cambiando».
«Nell’estate del 1984 vissi la rutilante vita della rock star – sorride Vasco -. Una sera rividi Gabriella, una ragazza con cui ero stato per un anno, la accompagnai a casa, la salutai affettuosamente, mica mi disse che dovevo stare attento... Negli stessi mesi venne un’altra a dirmi che aspettava un figlio da me, ma quella neanche la riconobbi, la mandai via, pensavo fosse matta. Me la ritrovai in giro per Zocca con il passeggino, e mi arrabbiai ancora di più: mi aveva rubato un figlio! Quando mi chiese di riconoscere Davide feci l’esame del Dna, e venne fuori che era proprio mio. A quel punto mi offrii di fare l’esame del Dna anche per il figlio di Gabriella, Lorenzo, ma lei non volle, “ti devi fidare e basta”. Fu Lorenzo, quando aveva 14 anni, a voler sapere chi fosse il padre. Feci il test: era mio pure lui. L’ho fatto studiare, si è laureato. Davide invece fa l’attore, mi ha anche reso nonno. Il mio primo nipotino si chiama Romeo, purtroppo lo vedo poco perché vive a Roma».



La fedeltà in amore
 
«Albachiara la scrissi per Giovanna, una ragazza che vedevo scendere dall’autobus a Zocca. Era un pezzo provocatorio, con quel finale sulla masturbazione femminile, allora tabù, anche per le mie amiche. Ma Giovanna non credeva che l’avessi composto per lei, pensava fosse un modo per intortarla, e allora scrissi “Una canzone per te”. Alla fine una storia l’abbiamo avuta, e ci mancherebbe altro, dopo due canzoni così…».
«Poi ho incontrato Laura. Era giovanissima, un po’ stronza, molto bella. La donna della mia vita. Ho tentato due volte di lasciarla. L’ho messa alla porta, e lei si è seduta sulla valigia, fuori dal cancello: ho dovuto riprenderla, temevo arrivassero i carabinieri ad arrestarmi. Poi le ho telefonato per dirle che era finita, e Laura si è precipitata fuori dallo studio di registrazione, ha aspettato finché non l’ho fatta entrare. Da lei ho avuto Luca, che è figlio dell’amore. Ora ha 25 anni e studia a Los Angeles, crea giochi per Internet. Laura non la tradisco mai. Fedeltà assoluta. Mettere su famiglia e restare un rocker non è stato facile, ma ce l’ho fatta. Ero stanco di vivere in albergo circondato da una corte dei miracoli, volevo un motivo per tornare a casa la sera».
«L’ho pure sposata, il 7 luglio 2007, quando sembrava stessi per morire a causa di un batterio killer, e i giornali scrivevano che avevo il cancro. In tal caso non mi sarei curato; sarei partito per i Caraibi, per morire vivo. Invece dopo due anni di antibiotici ne sono uscito. Ero solo tutto il giorno e ho scoperto Internet: su Facebook ho conosciuto un sacco di amici veri. L’intelligenza collettiva della rete è l’individuo del futuro. Grillo? Un grande, ha catalizzato la ribellione; ora bisogna capire che idee ha davvero. Berlusconi mi ha deluso: era socialista, speravo scendesse in politica a sinistra, non a destra. Oggi i pericoli sono Trump e Marine Le Pen».
«Sono felice di tornare al parco di Modena a suonare. Modena Park, come lo chiamo in Colpa d’Alfredo: una canzone scorrettissima, che sfuggì alla censura – “è andata a casa con il negro la troia” - solo perché nessuno l’aveva sentita prima. Sono stato il primo italiano a riempire uno stadio: San Siro, 10 luglio 1990. Come dice? Che con 220 mila biglietti venduti batterò il record di Ligabue? Ma questa rivalità è stata montata ad arte. Ognuno fa la sua gara. E poi al limite io posso essere paragonato agli Stones. Mi chiesero di suonare con loro, per vendere più biglietti; dissi no. Il prossimo primo luglio sarà una grande festa. Farò un concerto lungo, canterò finché avrò fiato; del resto il mio sogno è sempre stato morire sul palco».
 
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