Edoardo Nesi
L’ ULTIMA THULE DI IVO IL BARROCCIAI
Quando dico che gli scrittori americani hanno a disposizione storie, toni e persino parole che gli italiani non si possono permettere, penso a Edoardo Nesi e mi si scombinano le idee. Perché lui invece sì, lui se li può permettere, e chi vuol capire di cosa parlo si vada a leggere le prime pagine del suo ultimo Storia della mia Gente.
Tu apri il libro e lui ti racconta del tatuaggio che ha sul braccio, di cosa pensa quando beve l’aperitivo, delle sue lunghe estati da ragazzo e della musica che ascoltava guidando di notte su strade smisurate e dritte. E tu lo sai benissimo che il libro non parla di questo, e forse nemmeno queste pagine parlano davvero di questo, eppure ti interessano da morire e abbracci tutto quello che arriva. Perché hai aperto un libro e ti ritrovi dentro a un mondo, il suo mondo, e vuoi subito saperne di più.
È per questo, credo, che Nesi può scrivere come la maggior parte degli autori italiani non può. Perché ogni sua pagina è sorretta da un’epica: un’epica convincente, forte e personale, unita ad una visione nitida della realtà, così a fuoco che incendia.
Non saprei come altro definire il finale de L’età dell’oro, la sfolgorante notte parigina in cui Ivo Barrocciai ordina bottiglie e bottiglie di champagne, le stappa e le rovescia una dopo l’altra nel secchio del ghiaccio, per far capire all’altezzoso cameriere chi ha davanti. È epica, epica pura, che prende un momento del genere (terribile campo minato per la narrativa italiana) e lo rende glorioso. Nelle pagine migliori di Nesi c’è proprio questo gesto prepotente e senza tempo: il sedersi, guardarti dritto negli occhi e far partire il racconto. E tu a quel punto non hai mica troppa scelta: puoi solo stare più zitto che puoi, e iniziare a sentire. (Fabio Genovese)
Dì loro dell’ anno che guadagnasti un miliardo, Ivo!
E di quando con i tuoi amici, da ragazzo, liberasti sui tavoli del gran caffè del Corso, dopo la messa in Duomo, una posse di gatti infuriati per essere stati tenuti tutta la notte in una grande balla di iuta e poi battuti per bene coi bastoni subito prima di aprire la balla. Racconta di come travolsero le signorine eleganti e i gagà che prendevano l’aperitivo, e come soffiavano e strillavano, i gatti e le signorine.
E di quel calzare di corno che ti regalarono tanti anni fa, lungo quasi mezzo metro, che si poteva usare per infilarsi gli stivali senza dover piegare la schiena.
E di quella cosa santa che ti disse tua madre, che è inutile e anche stupido perder tempo a sperare nella caduta degli altri, perché poi ti ritrovi dopo anni che loro sono sempre lì dov’erano, e se proprio è andata bene tu sei riuscito a rimanere la stessa persona che eri, e tutto l’odio che hai provato per loro ogni volta che le vedevi ha fatto male solo a te, perchè mentre tu perdevi tempo a odiarle loro hanno vissuto una vita incomparabilmente più divertente e piena e libera della tua, ed è questo che conta, alla fine.
Dì loro dell’aquila che comprasti da quella guardia forestale che disse d’averla trovata nel bosco, perchè la madre era morta e lei era caduta dal nido, ma erano cazzate, perchè di certo l’aveva catturata di frodo. Di quando arrivò e la guardia forestale la appoggiò a terra e le tolse quell’incredibile cappuccio-paraocchi che aveva in testa e l’aquila alzò gli occhi, si guardò intorno, ti guardò fisso negli occhi per qualche lunghissimo secondo e poi mise la testa sotto l’ala e rimase così. La guardia forestale disse che era normale, era per via del cambiamento d’ambiente, dello strapazzo del viaggio. Gli desti un milione. Di lire, certo. C’erano ancora le lire. Gli desti un milione e non lo vedesti più, ma quell’aquila non è mai stata felice nemmeno nella voliera grande che facesti costruire per lei, nel parco di casa tua. Crebbe, ma non fece mai più che zampettare e svolazzare ogni tanto. Come si fa a riconoscere la felicità in un’aquila? Non la potevi liberare perchè non aveva mai vissuto libera. Parlasti con qualche zoo in Italia, ma non avevano voliere grandi abbastanza. Solo a Berlino l’avrebbero presa, ma non ti andava di mandarla a Berlino. E poi, bisognava catturarla, e come si faceva? Con le reti? Con le scale? Dovevi chiamare i pompieri? Non sapevi che farne, della tua aquila, e dire che era bellissima, enorme. Una femmina. Le femmine sono più grosse dei maschi. La gente non ha idea di quanto sia grossa un’aquila, anche senza allargare le ali. Era alta almeno un metro, e aveva un torace immenso, le cosce di un giovane calciatore, la testa più grossa di quella di un pastore tedesco, gli occhi che dardeggiavano. Gli artigli davano l’idea di poter sfondare un torace umano con un colpo solo, sembravano di ferro. Le zampe erano ricoperte di piume. A chi veniva a vederla dicevi che quell’aquila eri te, e se qualcuno rispondeva che allora vivevi in gabbia – t’è successo una volta sola, anzi due, sempre donne, sempre molto belle – sorridevi e cambiavi discorso perchè tutti viviamo nelle nostre gabbie. Ogni tanto l’aquila lanciava un grido. Guaiva come un cane. Non hai mai capito se si disperava. Eri te davvero, quell’aquila.
In Deserto Rosso di Antonioni, a un certo punto, c’è quell’infinito, insensato, grande sbuffo di vapore candido, che è la migliore descrizione possibile di quegli anni meravigliosi in cui tutti sembravano guadagnare.
Eri te anche quel vapore candido.
Racconta loro di quando avevi una Mercedes 190 bianca con le portiere ad ala di gabbiano, un Lamborghini Miura grigio argento, un Ferrari Daytona, un Jaguar E verde e una Fiat 130 blu che era appartenuta all’Avvocato. Ti garbava comprare, non vendere. Non hai mai venduto nulla, finchè non hai dovuto. Diglielo.
E spiegagli che c’era un’altra cosa di cinema, sempre di Antonioni, che ti garbava da morire: quel fatto impossibile e perfetto che il ragazzo protagonista di Zabriskie Point spara a un poliziotto, poi fugge fino a un campo di volo, sale su un aereo e accende il motore e decolla perché lo sa pilotare, ma fino a quel momento non se n’è mai parlato, del fatto che lui sa pilotare un aereo. Perchè non importa. Perchè il cinema è questo. Si fa così.
Ti ricordi quanto ti piaceva il cinema, e di quando dicevi che volevi essere l’ultimo degli spettatori, quello che si rifiuta di capire la trama finchè non gli viene spiegata per bene. Quello zuccone e innamorato, che non fa mai domande e vuole cadere nella storia come si cade nelle sabbie mobili. Uno spettatore e basta. Volevi essere colpito, stupito, affascinato, commosso, divertito.
Diglielo, Ivo. Di com’eri te, a questa gente che t’ha conosciuto solo da malato. Prendi fiato, ora. Attendi che il respiro ritorni normale, immagina di poter stare in piedi, e di tenere le mani appoggiate alle ginocchia mentre ansimi, come i giocatori di pallacanestro.
Racconta loro di quel giorno che prendesti il Concorde alle dieci e mezzo da Parigi, arrivasti a New York alle otto e dieci di quella stessa mattina, ti facesti portare dal tuo cliente migliore e in un’ora ti riuscì prendere un ordine colossale, e uscendo da quel grattacielo sulla Madison Avenue ti sentisti un re, e allora ti facesti riportare subito al Kennedy, e salisti su un altro Concorde diretto a Londra, dove arrivasti in tempo per andare a cena al Connaught con quella tua fidanzata perduta coi capelli corvini e gli occhi di ghiaccio, e il giorno dopo alle tre di pomeriggio eri di nuovo in fabbrica, a Prato, a spiegare ai tecnici come avviare a mettere in lavoro l’ordine colossale che avevi preso.
Digli del dente di narvalo che comprasti da quell’esquimese che in qualche modo, per qualche ragione, era finito a vivere a Pistoia.
Digli della Viareggio-Bastia-Viareggio. Digli dell’idrovolante. Digli di quelle trombate perfette di quando ti senti forte come un toro e il cazzo non ti si ammoscia mai e lo potresti sbattere nel muro.
Diglielo, perchè loro non lo sanno che a vivere si fa così. Che poi viene il giorno in cui sei a letto e fai fatica anche a respirare e tutti ti guardano con quello sguardo vuoto e ogni tanto c’è anche la scema o lo scemo che si mettono a piangere.
Diglielo, che non ti dispiace.
Diglielo, che sei felice.
Diglielo, che hai vissuto.
Diglielo, Ivo.